Storia
Il primo Codice di autodisciplina europeo risale al 1937 e fu varato dalla Camera di Commercio Internazionale con il nome di “Codice delle pratiche leali in materia di pubblicità”.
In Italia, essendosi la moderna pubblicità sviluppata solo a partire dal secondo dopoguerra, le categorie professionali iniziarono a dibattere la questione del controllo intorno agli anni ‘50. È del 1951 infatti il primo “Codice morale della pubblicità” varato dall’UPA, l’associazione che ancora oggi riunisce le imprese utenti di pubblicità, mentre l’anno successivo fu emanato quello della Federazione Italiana della Pubblicità. In ambedue i casi vi era però il limite che erano espressione di singole componenti del mondo pubblicitario. La svolta avvenne nel 1963, in occasione del VII Congresso nazionale della pubblicità, nel quale fu ampiamente condivisa la relazione del dottor Roberto Cortopassi, co-fondatore dell’Istituto e presidente IAP per decenni, sulla responsabilità sociale della pubblicità. In quell’occasione le categorie pubblicitarie italiane si impegnarono a dar vita ad un Codice unitario, alla cui elaborazione contribuì l’avvenuta costituzione, nella stessa circostanza, di un Comitato permanente di collegamento tra le principali organizzazioni pubblicitarie.
Il primo Codice di autodisciplina pubblicitaria fu promulgato dalle organizzazioni del settore il 12 maggio 1966.
I primi anni di pratica autodisciplinare risultarono piuttosto difficili a causa di più fattori, quali: le critiche provenienti da alcuni settori dello stesso mondo pubblicitario; lo scetticismo delle organizzazioni dei consumatori e dell’opinione pubblica, influenzata anche dall’ondata di contestazione che vedeva nella pubblicità un bersaglio; l’incredulità del mondo del diritto davanti all’ipotesi che un settore della società potesse seriamente determinarsi a restringere la propria libertà in limiti più angusti rispetto a quelli stabiliti dalla legge.
Fu così che nel corso del primo decennio (1966-75) il ritmo di interventi fu alquanto modesto, misurato da una media annua di 15 casi definiti.
A dare l’avvio a quello che sarebbe stato il rilancio del sistema contribuì il concorso di diversi fattori. Tra questi la decisione di affidare ad un alto magistrato la presidenza dell’organo giudicante. Una felice ispirazione divenuta poi una vera e propria tradizione.
Altro fattore di consolidamento fu la ferma volontà di mantenere gli impegni assunti, manifestata dagli enti che avevano dato vita prima al Comitato Interfederale della Pubblicità e poi nel 1971-76 alla Confederazione Generale Italiana della Pubblicità, cui seguirà, nell’attuale denominazione, l’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria.
Un altro positivo apporto giunse da una revisione del Codice che comportò, fra l’altro, l’obbligo di citare espressamente nelle pronunce il nome delle parti coinvolte, chiara conferma di una pubblica assunzione di responsabilità. Poco dopo ebbe seguito una seconda revisione, caratterizzata da una più accentuata tutela del consumatore.
Assieme ad un’incisiva serie di nuove norme sostanziali (trasparenza della pubblicità; rispetto delle convinzioni morali, civili e religiose; obbligo di segnalare i pericoli insiti in taluni prodotti; limiti alla pubblicità per le bevande alcoliche, per i cosmetici ed i viaggi organizzati), si crearono anche le premesse per decidere che tutti i membri del Giurì dovevano essere nominati tra esperti esterni al mondo della pubblicità, onde garantire la massima indipendenza e terzietà di giudizio. Una svolta che ha dato un contributo decisivo all’abbattimento delle residue posizioni di incredulità e sospetto.
Si era avviato così quel processo evolutivo che avrebbe costituito una delle caratteristiche peculiari dell’autodisciplina. Ben presto le revisioni del Codice diventarono pressoché annuali: ciò significa un aggiornamento tempestivo e costante delle norme, indispensabile per stare al passo con l’evoluzione di un fenomeno dinamico qual è la comunicazione commerciale d’oggi, inserita nel marketing di un libero mercato in continua espansione.
Contemporaneamente veniva affinandosi anche la formulazione delle norme del Codice, unanimemente apprezzate per una chiarezza espressiva e una comprensibilità lontane da certe enunciazioni legislative e, dunque, accessibili a chiunque.